La principale conseguenza negativa di questa illusione la abbiamo sotto gli occhi dopo Milano: l’elettorato democratico è prateria di conquista per altri partiti personali; per leadership dotate di narrazione senza neanche un circolo sul territorio; per aggregazioni fino a ieri ipotetiche e minoritarie (la Kadima centrista) che però trasmettono il fascino del luogo politico “che conta”, quello dove davvero si decide l’esito dello scontro con Berlusconi.
Chiaro che, come dicono i capi del Pd, «senza di noi non c’è alcuna alternativa». Ma questo ormai è vero per chiunque, possono dirlo anche Di Pietro, Vendola, Casini: non è una prerogativa del Pd, come dimostra il fatto che l’ipotesi di Grande coalizione, e non il rilancio del cosiddetto Nuovo Ulivo, sembra oggi la risposta più credibile alla crisi aperta dall’uscita di Fli dal governo.
Il voto milanese, come altri casi precedenti, dice molto di un elettorato ormai libero da condizionamenti e suggestioni. Un partito fa bene a scegliere un candidato e a impegnarsi per esso, ma nessun cittadino si sente più vincolato da questo tipo di indicazioni.
I flussi descritti in questi giorni dalle analisi del mercato elettorale ci portano ancora oltre: non solo non funziona più il vincolo dell’indicazione di partito, si sta indebolendo perfino l’ostacolo (che fin qui aveva retto tenacemente) del confine fra le coalizioni. Purtroppo a svantaggio del centrosinistra, visto che il Terzo polo riesce ad attrarre simpatie non solo da destra ma anche dal bacino progressista. E non certo perché sia pieno di facce nuove – anzi – ma perché si pone di fatto alla testa di una stagione politica diversa.
Sia un rafforzamento del centro che la riapertura dello spazio a sinistra facevano parte della strategia di Bersani e D’Alema. Forse però non era stato previsto che gli elementi di novità rappresentati da questi due fenomeni, messi a confronto con un Pd statico e ostile alla dimensione carismatica della leadership, avrebbero finito per premiarli oltre misura.
Insomma, si è ripetuto l’errore che fece Veltroni con Di Pietro nel 2008: il Pd ha dato una mano a chi era destinato a diventarne acceso concorrente.
Non c’è nulla di compromesso, comunque. La partita è apertissima. Innanzi tutto perché i problemi del Pd sono cosa marginale di fronte al macro-fenomeno dello scioglimento del Pdl.
Prendiamo per esempio il dato della partecipazione al voto delle primarie, che è stato letto come aggravante delle difficoltà del centrosinistra milanese: nessuno ha pensato che questo specifico astensionismo possa in realtà far parte della dinamica astensionista più generale, che è certificata da tutti i sondaggi ed è destinata a colpire – appena ce ne sarà l’occasione – molto più la Moratti di qualsiasi suo antagonista. Riportate questa ipotesi a livello nazionale, e vedrete le cose come le vede Berlusconi: nerissime per il centrodestra, duramente penalizzato nei consensi dall’operazione di Fini e Casini.
Il Pd non deve atterrirsi né tornare a dividersi.
Deve solo rimettersi in sincrono con la modernità, anche se non gli piace. Lavorare di comunicazione, di forza di leadership, tornare ad attraversare l’elettorato invece di pretendere di ri-aggregarlo su base identitaria o classista.
Del resto non era liquido per bizzarria intellettuale, il primo Pd, ma sulla base di un’idea di come si vive e si fa politica dentro una società di individui che cercano liberamente le proprie connessioni e non se le fanno imporre.
Sarà un caso, ma in giro un cripto-veltroniano che vince ci sta. Si chiama Nichi Vendola e ha un solo difetto: applica la propria peculiare vocazione maggioritaria a una linea politica minoritaria.
Comunque, quanto basta per mettere paura al Pd.
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